Trascorrono ormai quattro secoli dall’inaugurazione della chiesa di Sant’Ignazio all’Olivella con inizio dell’ufficiatura nella quaresima del 1622. Ancora oggi però si presentano palermitani e turisti che domandano di Sant’Ignazio di Loyola, scambiando noi oratoriani per gesuiti.
Dall’inizio dell’edificazione della chiesa si volle rappresentare sant’Ignazio nella magnifica tela dipinta alla maniera del Caravaggio (tinte fortemente caricate per dare risalto al chiaroscuro) da Filippo Paladini nel 1613, ospitata nel transetto sinistro. Sant’Ignazio è rappresentato nel momento del supplizio che lo vide morire in pasto alle fauci dei leoni, negli spettacoli circensi organizzati a Roma per festeggiare l’imperatore Traiano vincitore nella Dacia.
A onor del vero bisogna pur dire che quando nel ‘500 si scelse il titolo della chiesa, Sant’Ignazio di Antiochia non convinse neanche gli stessi padri dell’Oratorio. Per sollevarsi dalle difficoltà di una scelta collegiale così difficile, esperirono per l’estrazione a sorte che portò per tre volte consecutive al sorteggio del martire antiocheno Ignazio. Un padre della Chiesa dei primissimi tempi dell’era cristiana, del tutto sconosciuto a Palermo, senza nessun culto o devozione popolare, ma pur sempre un santo della Chiesa. Ignazio appartenne al gruppo dei padri apostolici, ovvero i primi successori degli apostoli, dei quali furono discepoli. Fu ammaestrato da San Giovanni evangelista e venne poi eletto a successore di San Pietro nell’antichissima sede di Antiochia, dove per la prima volta i discepoli furono chiamati “cristiani”. Un santo sicuramente poco popolare tra la gente, senza la devozione che vantano quei santi intorno ai quali si affollano i fedeli per chiedere grazie e miracoli. Dunque una persona che non ha più niente da dirci?
In quanto vescovo Ignazio fu pastore del gregge di Cristo, lo testimonia la sua letteratura. Nel lungo e penoso viaggio che lo condusse a Roma, in seguito all’arresto nelle persecuzioni romane, scrisse ben 7 lettere indirizzate a comunità cristiane. In questi testi si riscontra un contenuto teologico non indifferente in argomenti che, i lettori più specializzati, studiano con interesse patristico. Ma se il destinatario delle lettere scritte dal vescovo Ignazio era piuttosto il popolo di Dio, il suo intento era raggiungerli in modo credibile quanto comprensibile. In tal senso è bello leggere tra le righe e nelle formule di saluto, le parole personali e dirette, espressione di paternità spirituale, rivolte a specifiche persone da lui conosciute ed amate.
Prestando attenzione ai destinatari delle lettere si nota come la dottrina formulata dal vescovo Ignazio non sia altro che concreta indicazione di come attuare le sue esortazioni. Le lettere nominano alcuni cristiani che il mittente loda e sprona. Ignazio incoraggia i cristiani ad affrontare le avversità e perseverare nella fede, non con parole vaghe o illusorie, bensì illustrando precisamente il contenuto della fede rivelata e come praticarlo nella vita. Si mostra allora che la teologia sviluppata da Ignazio è per rispondere alla domanda “cosa fare?”, al fine di pacificare diatribe, stabilire un ordine sociale nella comunità cristiana, salvare dal peccato in cui restavano romani, giudei, greci.
Chi vive la vita seguendo ideali diversi da quelli che Ignazio propagandava, può comunque apprezzare la coerenza con cui il suo insegnamento fu confermato dalla testimonianza della sua stessa vita. La fede vissuta lo portò ad essere “frumento di Cristo macinato dai denti delle fiere”, secondo la parola di Gesù quando diceva che il chicco per portare frutto deve morire. Quando i romani cercarono di salvarlo da quella cruenta morte, Ignazio gli scrisse per impedirglielo e dicendosi felice di poter rendere la suprema testimonianza del martirio, a conferma della fede tanto predicata. La letizia con cui andò incontro alla morte può interpretarsi come un suicidio? Essere disposti a sacrificare la propria vita per ciò in cui si crede non è prerogativa solo dei martiri cristiani. Bisogna comprendere il cammino interiore svolto per arrivare a quel punto, leggibile nelle sue lettere, non riassumibili in poche parole. Parole che esprimono insegnamenti sapienziali, oggi classificati come saggistica, oltre a contenuti che in certe attuali situazioni della Chiesa fanno scoprire ancora sorprendentemente significativo meditarne l’insegnamento e contemplarne la figura.