Già il Rè delle tenebre era forzato a piangere sovente le sue perdite, mercè a i sudori, e fatiche de i novelli operarii, colle quali molte anime peccatrici si liberavano dalla sua tirannica schiavitudine, e maggiori ei le temeva quanto più crescesse e di sito, e di numero la nuova Congregatione. Frapose egli dunque non poche difficoltà nella compra dello spatio sudetto, e mille impedimenti suscitava per trattenere i felici augumenti di quella casa, e di quella Chiesa. Mà un nuovo campione sperimentarono i Padri propitio a loro favore, e fù appunto il gran Vescovo, e Martire Antiocheno Sant’Ignatio. E ben era ragione, che chi diede ossequioso ospitio nel suo cuore a Giesù favorisse i figli di colui, che nel suo petto albergò lo Spirito Santo. Osservarono i Padri, che se bene gravi erano le difficoltà, che insorgevano, pure restavano elle spianate nel giorno della solenne festività del Santo Martire che però il Padre Gioseppe Gueli superiore all’hora di Congregatione con consenso de’Padri fè voto di eleggerlo per Padrone dedicando a suoi honori il nuovo Tempio. Gradì dal Cielo il Santo la divota offerta: onde immantinente cessò ogni difficoltà, e restò spianato qualsisia impedimento. Mà se da ciò poteasi argomentare, che il Santo havesse gradita l’offerta parve, che maggiormente volesse dichiararla, e certificarne quei suoi divoti; poiche havendo posto in una bussola i nomi di più Santi, a’quali pensavano di dedicare il nuovo Tempio per ben tre volte cavandosi dall’urna a forte i loro nomi sempre uscì quello del Santo Martire Ignatio: onde e per l’una ragione, e per l’altra restò fermamente stabilito, che a lui si dovesse l’honore della padronanza. (Giovanni Marciano, “Cronache historiche della Congregazione dell’Oratorio”, libro V, capo XXIII)
In questo passo delle sue massicce memorie storiche, il padre dell’Oratorio di Napoli Giovanni Marciano racconta come avvenne l’elezione di Sant’Ignazio di Antiochia a titolare dell’erigenda chiesa di nostra Congregazione palermitana. Il racconto di Marciano vuole ricordare le avversità che si incontrarono da principio, da lui a chiare lettere imputate all’opera del Maligno. La nascente Congregazione era tanto promettente per il bene delle anime, quanto più invisa al demonio che le voleva strappare al regno di Dio per condurle a perdizione. Mentre alcuni figli delle tenebre si adoperavano per la rovina, i padri dell’Oratorio di Palermo dedicarono il proprio tempio a un santo senza culto locale, non popolare, non taumaturgo… Un Padre della Chiesa, del primo gruppo dei padri apostolici – che ricevettero di prima mano l’insegnamento degli apostoli –, la cui figura abbiamo già presentato nell’articolo dell’anno scorso.
Nella costruzione della chiesa vennero inseriti diversi elementi rappresentativi del suo titolare: sul portale d’ingresso spiccano le figure dei leoni in alto e bassorilievo, sul tamburo della cupola le ultime parole indirizzate da sant’Ignazio ai romani, la maestosa tela di Filippo Paladini (1613) nella pala del transetto sinistro che rappresenta il suo martirio al Colosseo nel 107 d.C., dipinta alla maniera del Caravaggio. Inoltre sant’Ignazio in gloria fu pure affrescato da Guglielmo Borremans sulla volta della sacrestia.
Il secondo successore di San Pietro alla sede di Antiochia in Siria, venne condannato ad bestias da vescovo sotto l’imperatore Traiano. Nel lungo e penoso viaggio che lo portò a Roma, scrisse quattro lettere nella prima tappa di Smirne (a Efeso, Magnesia, Tralli, romani) e altre tre a Troade (a Filadelfia, Smirne, San Policarpo). La sua letteratura presenta un importante contenuto teologico riguardante i dogmi fondamentali della fede e alcuni sacramenti, più il particolare ambito ecclesiologico. Sant’Ignazio di Antiochia fu infatti il primo a parlare di “Chiesa Cattolica” e di Chiesa gerarchica, venendo poi ricordato per il tema forte dell’unità della Chiesa. Le sue lettere argomentano continuamente la necessità di obbedienza e concordia tra il vescovo e i christifideles, comunione anzitutto nella dottrina e nei sacramenti.
Nell’età paleocristiana, quando era ancora di là da venire lo scisma d’Oriente che per primo ruppe l’unità della Chiesa, Sant’Ignazio formula i fondamenti del nostro sensum ecclesiae. Descrive una Chiesa universale che comprende realmente tutti i credenti in Cristo, i quali “ad Antiochia per la prima volta furono chiamati Cristiani” (At 11,26). La primitiva comunità ecclesiale era strutturata a livello locale attorno al proprio vescovo, con la pienezza dell’ordine d’istituzione divina; ad esso Sant’Ignazio attribuiva entro la Chiesa particolare l’autorità che caratterizza il monarca (“episcopato monarchico”), esattamente come si ritrova nei sacri canoni secoli più tardi. Ignazio chiarisce che al vescovo sottostanno, per grado inferiore dell’ordine sacro, presbiteri e diaconi.
Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri come gli apostoli; venerate i diacono come la legge di Dio. Nessuno senza il vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida l’eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. Dove compare il vescovo là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa Cattolica. (Lettera agli Smirnesi, VIII 1-2)
Sant’Ignazio coronò coi fatti il suo insegnamento, ovvero dandone la suprema testimonianza del martirio. Chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna (Mt 12,25), è un detto di Gesù attestato da tutti gli evangelisti: Chi vuole salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà (Lc 17,33). Parafrasando il Vangelo, Sant’Ignazio disse di sé: «Io perdo Iddio, se riesco a salvarmi. Mai più mi capiterà una simile ventura per riunirmi a Lui» (lettera ai romani). Infatti Gesù dice ancora che il chicco di grano per portare frutto debba morire (Gv 12,24): Sant’Ignazio volle essere quel chicco di grano, «frumento di Cristo macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro per Cristo», come si legge in latino nella cupola della nostra chiesa. Il frutto che dal regno dei cieli ha portato alla nostra Congregazione, si è inverato nelle grazie rammemorate da Giovanni Marciano e ancor oggi celebrate dalla liturgia in rendimento di grazie.